Il pubblico del Teatro lirico di Cagliari accoglie con entusiasmo la rappresentazione di Gloria, melodramma in tre atti di Francesco Cilea su libretto di Arturo Colautti tratto dal dramma La haine (L’odio) di Victorien Sardou.
Tolti gli aspetti più foschi del romanzo rimane una storia di amore e morte tra due ragazzi appartenenti a due famiglie rivali: quella Guelfa dei Bardi di cui fa parte Gloria, e quella dei Ricci, Ghibellini, a cui appartiene Lionetto.
I due si incontrano vicino alla fontana appena inaugurata. Un indulto creato per l’occasione consente anche ai Ghibellini di partecipare ai festeggiamenti, purché entrino in città disarmati e se ne vadano prima del tramonto.
Ma Lionetto svela una lama con la quale ferisce Bardo al braccio e rapisce la ragazza. E’ l’inizio di un amore che avrà una conclusione tragica.
Una messa in scena di impianto rigorosamente tradizionale quella di Antonio Albanese all’insegna dell’originalità stilistica e con un omaggio alla terra che lo ospita.
Rinuncia all’uso della multimedialità, agli effetti speciali fini a se stessi, ai cappottoni nazisti che ormai sembrano irrinunciabili in ogni recita, e punta tutto sul lavoro artigianale delle maestranze teatrali, con scene accurate e costumi di alta sartoria.
Ma soprattutto si preoccupa che il canto raggiunga il pubblico con tutta la forza e la potenza di una musica che a volte incanta, con la celebrazione di paesaggi bucolici, a volte travolge come un’onda furiosa.
E un regista che valorizza il canto e i cantanti di questi tempi è raro, così come è rara l’eleganza e il gusto per la composizione che qui sono elementi curatissimi, con qualche eccezione sul finale.
Sul podio il M° Francesco Cilluffo dirige con passione e veemenza l’Orchestra di Cagliari in un’opera musicalmente tanto bella quanto complessa e ricca di influssi. Impregnata di un verismo che non rinuncia mai ad essere melodioso, dove i ritmi sincopati sono funzionali e dove le lezioni d’oltralpe, da Wagner a Massenet, vengono rielaborate e sposate al gusto e alla tradizione italiana.
Una bacchetta ispirata che sa trarre il meglio da una partitura evanescente e avvolgente nel suo tributo alla fonte e alla primavera, ma che poi diventa impetuosa e incalzante con un poderoso utilizzo di percussioni in un concertato, quello del primo atto, che esplode verso il pubblico con forza dirompente.
La versione scelta è quella del 1932 approntata per il San Carlo dove Cilea si concentra maggiormente su ciò che gli sta effettivamente a cuore, ossia il dramma privato dei due giovani, rinunciando così ad ogni magniloquenza scenica e musicale che tradirebbe la sua visione.
Il libretto è seguito fedelmente fatta eccezione per la parte in cui Bardo si rivolge a Gloria indicando le chiome brune della protagonista, invece che bionde.
La storia tragica di Gloria e Lionetto viene qui rappresentata in un non-luogo senza tempo, dove l’azione è sacrificata e i personaggi sono pietrificati in una rigida e nobile compostezza.
E forse la suggestione maggiore che ci riporta con il pensiero ad una Sardegna arcaica deriva dalla trasformazione degli esseri umani in betili antropomorfi.
E’ questo che suggeriscono i costumi di Carola Fenocchio, soprattutto quelli maschili: elaborati ma pesanti, stilizzati e granitici, con i colori che richiamano il basalto, l’ossidiana e l’ arenaria.
Costumi goffi non esaltati dal movimento delle linee e che sottolineano la rigidità dei protagonisti.
Lionetto che estrae la spada con il fodero fuso all’abito sembra ricalcare l’immagine di quei Menhir osservabili al museo del Parco Aymerich di Laconi che mostrano all’altezza dell’addome proprio il doppio pugnale.
Le luci di Andrea Ledda ammantano l’ambiente creando un’atmosfera luminosa, esaltando i colori, concentrandosi sui protagonisti. Il primo atto si conclude con grande effetto quando dalla porta sul fondo prorompe il rosso a simboleggiare il sangue che scorre e che invade la fontana, ma che simboleggia anche la passione e un presagio di morte.
La chiave di lettura per questo allestimento, a parer mio, risiede proprio nel comprendere la pietra, il forte simbolismo che emana da essa e l’imperturbabilità di fronte ai secoli e alle miserie umane.
L’elemento Sardo quindi non va ricercato tanto nelle scene di Leila Fteita che evocano una Sardegna ancestrale, o nella rivisitazione dei costumi della tradizione più recente che spiazzano per l’incoerenza stilistica e temporale con il paesaggio circostante che trascina la memoria all’epoca nuragica.
Un’incoerenza questa che destabilizza.
Che sia voluto o meno c’è più sardità invece nella inamovibilità dei personaggi che sembrano scolpiti in quelle pietre che fanno parte del paesaggio, in quella gestualità minimale che caratterizza ogni incontro, nella mimica del volto imperscrutabile, nella comunicazione criptica.
Si dice spesso che il sardo non comunica con i gesti, che raramente sono plateali, ma con gli occhi.
Ed in questo senso la mancanza di azione converge conla visione di Cilea che non cerca mai per la sua opera un effetto spettacolare ma che intende invece sottolinearne l’aspetto intimista.
A fare da sfondo agli eventi una scenografia che evoca, senza essere oleografica, il pozzo Sacro di Santa Cristina. L’enorme struttura lo ricorda nelle pietre levigate, nelle linee raffinate e quasi alienen negli scalini ai due lati del palco dove il coro di Cagliari, diretto dal direttore Giovanni Andreoli, prende posto in una fissità che ricorda quella dei Menhir di Biru ‘e Concas e offre una prova superba mostrando una potenza e uno sviluppo di armonici che sorprende e incanta.
Ed è la musica, protagonista assoluta della serata con un cast vocale di altissimo livello. Le voci sono belle, teatrali ed espressive.
A cominciare dal tenore Carlo Ventre, dalla voce stentorea e tecnica sicura che gli consente di sfoggiare un’intonazione omogenea in tutti i registri e di cimentarsi in una parte congeniale al suo timbro di voce caldo e brunito. Un ruolo che ha una tessitura in cui icentri devono essere perfettamente calibrati e in cui gli accenti eroici non trovano quasi mai sfogo nella nota più alta, ma si ripiegano in una sorta di dialogo spirituale e profondo.
Esegue con il giusto slancio l’aria “Storia ho di sangue!”, si rivolge con tenerezza a Gloria ed esprime con trasporto l’aria “Pur dolente son io…” in cui brilla nelle note più alte e commuove la conclusione in morendo.
La protagonista, Gloria, è interpretata da una Anastasia Bartoli al suo meglio, nella magnificenza di un’opulenza vocale impetuosa accompagnata da una ricchezza musicale che affascina. Dolce nella preghiera alla Madonna “Vergine d’astri e di viole adorna…”, potente nei concertati, determinata nel suo amore per Lionetto.
Esegue con dovizia di colori l’aria “O mia cuna, fiorita di sogni e di melodi…”; il fraseggio è ispirato, la messa di voce in “a te s’immolerà…” è elegiaca e la conclusione con il filato in “m’ha fermata il destin!” strappa infine l’applauso.
Dotata di grande avvenenza fisica, ed esaltata dall’abito plissettato colorato di un vivido rosso, unisce alle doti vocali quelle recitative mostrandoci un personaggio dolce ma anche determinato, passionale e vitale. Una vitalità che stride fortemente con la staticità di chi gli sta intorno. E’ lei che è in balia delle emozioni, indecisa tra dovere e amore. E’ lei che si dibatte come un animale in trappola. E’ lei a prendere le decisioni. Anche la più fatale.
Aquilante de’ Bardi ha la voce sicura e importante del basso Ramaz Chikviladze. Interpreta il ruolo con aristocratica flemma. Dizione perfetta, fraseggio autorevole e presenza scenica rimarchevole. Abbraccia con sicurezza il ruolo del nobile condottiero della fazione Guelfa e padre di due figli: Gloria e Bardo.
Quest’ultimo interpretato magistralmente da Franco Vassallo, baritono dalla voce nobile, calda, imperiosa in cui si percepisce però, strisciante, un animo vendicativo capace dell’atto più vile. Un personaggio complesso e sfaccettato che trova in Vassallo un ottimo interprete.Sprezzante nel duetto con Gloria, fino alla crudeltàestrema nel confessarle la morte del genitore. Infido nel mostrarle quell’anello ricolmo di veleno che lei riconosce essere del padre, ritrova poi una sorta di dolcezza fraterna quando crede di averla convinta ad uccidere Lionetto.
Completano degnamente il cast il sonoro Vescovo interpretato dal basso Alessandro Abis, la Senese interpretata dal soprano Elena Schirru dalla voce chiara e corposa, e il Banditore interpretato dal basso Alessandro Frabotta con declamato autorevole .
Dal punto di vista drammaturgico ad un primo attoefficace e visivamente potente, segue un secondo atto carico di aspettative ed un terzo atto imperfetto in cui la tensione si affloscia.
L’immobilità che all’inizio della rappresentazione assume un carattere sacro di fronte alla fonte, nel terzo atto diventa invece pesante. Le scene non aiutano. L’ingombrante scalinata è irta e muoversi per gli attori/cantanti è veramente complesso. Gli spazi risultano ristretti e i costumi non facilitano i movimenti in scena.
Lionetto, ferito a morte a tradimento da Bardo, giace lungamente sugli scalini in posizione centrale in modo del tutto innaturale per un uomo che sta morendo, anche se la posizione probabilmente è comoda per proiettare il suono. Ad un canto accorato e commosso non corrisponde un’altrettanto valida prova d’attore.
Alla morte dell’uomo amato Gloria nella disperazione si uccide e il suo corpo si riversa su di lui ammantandolo con la veste rossa. L’idea è buona e il simbolismo energico, ma esteticamente la composizione è troppo centrale e impacciata per essere visivamente appagante.
Tuttavia il riscontro di pubblico è caloroso e perdona il calo di tensione sul finale.
In conclusione se la regia non mantiene tutte le promesse il cast vocale invece convince appieno.
La regia non fa concessioni allo spettacolo e privilegia il canto.
E sono le voci, e la musica riscoperta di Cilea, a trionfare e a scaldare gli animi di una gelida notte Cagliaritana.
Loredana Atzei
L’articolo si riferisce alla recita del 10 Febbraio 2023.
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