Incontriamo a Genova il soprano Irina Lungu tra una prova e l’altra de Il Corsaro di G. Verdi.
Nelle ultime stagioni ha aggiunto al suo repertorio ruoli più drammatici come Imogene ne Il pirata, affrontato con grande successo due anni fa a Zurigo. Nel corso della sua ormai ultra-ventennale carriera, Irina Lungu si è esibita nei maggiori teatri internazionali: oltre alla Scala, il Metropolitan di New York, il Covent Garden di Londra, l’Opéra di Parigi, la Staatsoper di Vienna, Liceu di Barcellona, e molti altri, senza contare i più importanti teatri italiani.
Genova, 25 Maggio 2024
Una brillante carriera artistica ventennale. Cosa ricorda dei primi debutti?
Il mio debutto assoluto è stato nel ruolo di Leïla in “Les pêcheurs de perles” a Voronezh in Russia quando avevo solo 21 anni. Di questo debutto ricordo soprattutto il grandissimo senso di disinvoltura con la quale salivo in palcoscenico e di naturalezza, perché mi sembrava fosse una cosa normale e persino ovvia il fatto di iniziare la mia carriera con un ruolo da protagonista, senza fare prima ruoli minori come spesso avviene. A Voronezh ho cantato altre due opere, e poi sono arrivata direttamente in Italia, avendo quasi immediatamente l’opportunità di debuttare al Teatro alla Scala sotto la direzione di Riccardo Muti. Anche questo in fondo mi appariva come una cosa del tutto normale e ovvia, perché mi sentivo molto sicura: volevo cantare ruoli, stare in palcoscenico, cantare in una produzione. Tutto questo lo percepivo come cosa scontata, e perfino dovuta.
Devo dire che ero molto meno perfezionista di adesso. Con il proseguire della carriera si è creata l’aspettativa e allora le cose sono cambiate, ho preso la coscienza del mio mezzo, della mia vocalità, del mio strumento dei miei punti di forza, ma anche dei miei limiti e allora sono diventata molto più cosciente, molto più perfezionista anche a livello musicale e interpretativo, sono diventata molto più esigente con me stessa. Sicuramente vorrei, se fosse possibile questa magia, tornare all’incoscienza della gioventù, però non si può e questo devo dire anche fa parte del gioco, perché l’artista deve prendere a coscienza del suo strumento, dei suoi limiti, di ciò che fa, della sua personalità vocale artistica, che è ciò che permette di crescere e di sostenere una carriera lunga.
La sua voce si presta a diversi repertori operistici. Il compositore più amato? Perché?
Sì, affronto volentieri moltissimi repertori e mi piace considerarmi una cantante e un’artista versatile. Però il mio approccio con la voce non cambia passando da un repertorio all’altro, perché partiamo sempre, per qualsiasi repertorio, dalla base belcantistica. Parliamo della voce, dell’emissione sul fiato e della voce con registri omogenei. Parto sempre da questo presupposto di avere costantemente una bella linea di fraseggiare, sempre sul fiato, con una pronuncia molto chiara e molto comunicativa, con grande cura del fraseggio e della linea di canto.
Il fatto di affrontare tanti repertori è più che altro una questione stilistica perchéé la musica francese ha un linguaggio diverso rispetto alla musica italiana; occorre molta sensibilità, ed è necessario proprio fare un’immersione in questo stile piuttosto che un altro, e capire quali sono gli strumenti di comunicazione di uno stile mozartiano o dello stile verdiano o di quello verista. Mi considero molto fortunata perché ho avuto una formazione come musicista prima con uno strumento e poi anche con la direzione e ho studiato le solide basi di analisi, armonia, polifonia, che mi permette di avere un approccio sia concreto da cantante, da vocalista per quanto riguarda la linea del canto, che si occupa di come gestire tecnicamente un cantabile o una cabaletta, sia uno sguardo un po’ più generale, da musicista quale quello che può avere anche un direttore d’orchestra. Cerco quindi di prepararmi il più possibile a 360 gradi. Il mio compositore del cuore, il mio primo amore che non si scorda mai rimane sempre Vincenzo Bellini, e poi ovviamente anche Verdi ma anche Gounod, Čajkovskij.
Un sogno da realizzare?
Parlando di sogni da realizzare, restiamo sempre con Vincenzo Bellini, dato che il mio sogno nel cassetto, dopo aver interpretato Giulietta ne “I Capuleti e i Montecchi” e Elvira ne “I Puritani”, era quello di cantare “Norma”, ed è un sogno che si avvererà la stagione prossima in aprile in un nuovo allestimento alla Staatsoper di Berlino. Ho anche altri sogni, che spero si avverino più in avanti.
La sua “Violetta” …il suo alter ego?
In una certa misura sì, è il mio alter ego. Violetta è una donna che, nonostante la sua giovane età, ha visto e vissuto una miriade di esperienze, belle e meno belle, conservando sempre una purezza, che coincide con l’amore per Alfredo.
Anch’io, come lei, in vent’anni e passa di carriera ho vissuto una vita molto intensa fatta di trionfi ma anche delusioni, e credo di aver conservato anch’io una fiammella di purezza che mi permette di vivere senza risentimento verso alcuno.
Di Violetta si sottolinea spesso la sua visione dell’amore, ma è un personaggio così complesso che non è possibile ingabbiarla in un solo sentimento. Spesso dico che Violetta per me rappresenta lo “schianto dell’animo”. Così definisco questo personaggio.
È stata diretta dai maggiori direttori d’orchestra. Ce n’è uno, in particolare, a cui deve riconoscenza?
Sì, sicuramente nella mia carriera ho avuto varie collaborazioni con dei grandissimi direttori d’orchestra; posso citare Lorin Maazel, Daniel Oren, Daniele Gatti, o Gianandrea Noseda, e potrei fare altri nomi, ma visto che questa domanda mi arriva proprio in questo momento, che sono a Genova a cantare “Il corsaro” di Verdi sotto la direzione di Renato Palumbo, voglio menzionare questo magnifico direttore che mi stupisce sempre; è un direttore con il quale sono sempre molto contenta di lavorare, ed infatti abbiamo fatto insieme innumerevoli recite di Traviata o Rigoletto. Tutt’oggi mi insegna sempre qualcosa di nuovo sulla voce, sul canto, sulla musica di Verdi, sull’approccio di una cantante verso un’opera, una partitura, lo stimo tantissimo e ci tenevo a menzionarlo.
Sarà Medora al Carlo Felice di Genova. Un nuovo titolo verdiano in repertorio.
Non è un debutto, è la terza volta che lo interpreto. La prima volta nel 2008 a Busseto, poi a Monte Carlo qualche anno fa in forma di concerto e adesso è la terza occasione. Non è uno dei personaggi più articolati del repertorio verdiano, e nonostante abbia l’aria più famosa dell’opera “Non so le tetre immagini”, il personaggio di Medora rimane sempre ai margini dello spettacolo e dell’opera. Non prende parte alle vicende del corsaro, si presenta appunto nel finale dopo che è già tutto accaduto, si avvelena perché non sopporta questa attesa piena di tristi presagi; è un personaggio appartenente ad un’altra dimensione, molto evanescente, e desideravo rimanere fedele all’idea del compositore, del librettista, non caricare questo personaggio di eccessiva drammaticità o di carnalità come potrebbe essere il personaggio di Gulnara, che è l’altro soprano dell’opera. Mi piaceva rimanere come Medora, mantenere un certo distacco dagli eventi, rimanere un po’ come nel suo mondo, anche a rischio di rimanere distaccata dalla vicenda dell’opera. Questa è la mia idea di Medora.
L’interpretazione, la parola, la dizione, l’articolazione sono fondamentali nel canto. Come la affronta?
Vorrei dire che sicuramente l’interpretazione è importantissima, perchéé non può esistere un cantante che non sia anche un interprete. Un cantante è sempre un interprete, sia in concerto, sia in uno spettacolo. Soprattutto al giorno d’oggi, che gli spettacoli sono molto intensi, ci sono tanti esperimenti per creare un linguaggio nuovo, che sia vicino al pubblico. Non dimentichiamo inoltre che molti spettacoli vengono ripresi in video e in alta definizione e le persone da casa ci vedono da molto vicino, e perciò dobbiamo pensare di sembrare più naturali possibile, che non è sempre facile perchéé il canto lirico deve farci sentire in uno spazio molto ampio, senza amplificazione, e quindi sembrare naturale in queste in queste condizioni non è sempre facile. Anche noi cantanti dobbiamo capire come poter fare del nostro meglio con queste evoluzioni del linguaggio e dello spettacolo
A me personalmente piace partire dall’idea che ha avuto il compositore di questo personaggio e di come lo aveva pensato, di come lo aveva collocato all’interno di una storia, che linguaggio espressivo ha, come interagisce con gli altri personaggi, come posso dare forza con la mia personalità, col mio strumento a questo personaggio, a questa idea. Ma queste sono cose molto astratte. Parliamo invece delle cose concrete. Noi che strumenti abbiamo per essere espressivi? Abbiamo sicuramente una voce, una vocalità senza sforzo, abbiamo il fraseggio e il mezzo drammatico, quello della pronuncia, quello della parola, il mezzo che può dare molta forza al personaggio e soprattutto nelle opere verdiane. Nelle opere di Bellini, di Donizetti, forse il mezzo più espressivo potrebbe essere un fraseggio, una linea omogenea, mentre in Verdi, pur mantenendo questa omogeneità, bisogna dare qualcosa di più, quell’accento drammatico sulla parola. Questo va capito molto bene, va studiato soprattutto tecnicamente perché il tuo mezzo vocale deve plasmarsi completamente ai fini espressivi e non essere mai fine a sé stesso nel repertorio verdiano. Quindi per me la maggior parte del mio lavoro consiste nello studiare un personaggio, studiare uno spartito, trovare questi punti espressivi. Va fatto anche moltissimo lavoro proprio di tecnica: devo ripetere, capire come posso migliorare una frase, devo, come si dice in gergo “mettere in gola” un’opera, e questa espressione in fondo vuol dire che la gola a un certo punto non deve più fare fatica, deve pensare solo ad essere interprete e non risolvere i tuoi problemi vocali. È un lavoro quotidiano, un lavoro da un atleta, perché un cantante è un atleta; amo il mio lavoro perché questo specie di atletismo fa un po’ parte del mio stile di vita, perché io non riesco a immaginare un singolo giorno senza che io pensi alla mia voce, a come migliorare, a come capire lo stato della mia voce di oggi. È sicuramente un lavoro che diventa anche uno stile di vita.
L’interpretazione può sembrare una parola molto astratta, ma per i cantanti è una cosa veramente molto concreta che parte proprio da uno studio, una dedizione quotidiana.
I suoi prossimi impegni?
Sono in procinto di partire per una mini-tournée in alcune città tedesche (Amburgo, Friburgo, Stoccarda, Dortmund) con il “War Requiem” di Britten, che non ho mai cantato, diretto da Teodor Currentzis. Un altro debutto importantissimo, che aspetto da molto tempo, un sogno che finalmente si avvera, e quello in “Norma” la primavera prossima alla Staatsoper di Berlino. Riprendo la mia amata Violetta all’Opéra Royal de Wallonie di Liegi e al Teatro Verdi di Salerno, e ritorno dopo alcuni anni a Donna Anna in “Don Giovanni” a Tokyo.
Non ci resta che ringraziarla per la sua disponibilità e la salutiamo con l’augurio che i suoi sogni possano realizzarsi presto.
photo credit: Elena Sikorskaya
Salvatore Margarone