di Sergio Morana
Vorrei esplicitare alcune semplici riflessioni sulla didattica per competenze applicata all’Ascolto musicale, che rappresenta (o dovrebbe rappresentare) uno dei cardini della didattica musicale nella scuola del Primo ciclo (Primaria e Secondaria di I grado, già dette Elementari e Medie).
Non sono un esperto dell’argomento – se per esperto si intende in cattedratico che dispensa, appunto, ex cathedra, il Sapere – ma molti e molti anni di lavoro tra i banchi, con migliaia di occasioni per porsi interrogativi irrisolti, credo mi diano sufficiente titolo a pormi ed a porre interrogativi, proponendo anche qualche (non troppe) ipotesi di soluzione.
Poiché tutti sappiamo che testi troppo lunghi e compendiosi hanno il primo difetto nell’essere illeggibili dopo la terza riga, cercherò di spiegarmi a puntate, con dei pensierini (chi li ricorda, alle elementari?) per non annoiare.
Ancora un’osservazione. Tutt’ora non ho capito – scusatemi, non capire a volte è una mia caratteristica – perché il nuovo millennio ha portato con sé l’idea ministeriale di cancellare la intelligente denominazione “Educazione Musicale“, assegnata dai programmi del ’77 alla disciplina, riducendola a “Musica“. E’ vero, è una mera questione di titoli, ma un titolo mal pensato porta a pensare altrettanto male dei contenuti.
Con questa scelta incomprensibile la disciplina ha compiuto – per fortuna in parte solo idealmente – un percorso all’indietro di almeno 30-40 anni, riportandola, almeno nell’intitolazione, agli anni ante 1977, quando era la cenerentola della scuola dell’obbligo e veniva intesa come una attività non particolarmente utile alla formazione della personalità e della cultura dell’individuo, tutt’al più una forma di insegnamento dedicato ragazzine di buona famiglia, una forma di artigianato leggero di cui un liceale poteva benissimo fare a meno per affrontare i ben più ponderosi e formativi testi di Tacito. E che naturalmente non era il caso di studiare, perché non faceva parte delle “materie importanti”.
Insomma, era una materia secondaria, quando non peggio. Non si comprendeva, cioè, la enorme potenza formativa, sia sul piano della personalità che su quello più strettamente culturale della musica, che ben necessitava – come d’altronde altre discipline artistiche o tecniche – di una vera e propria educazione. Anzi entra con pieno diritto e pienezza di risorse nell’orizzonte in un serio progetto educativo generalizzato.
E’ pur vero che se una lingua non la conosci non la puoi apprezzare e gran parte della classe docente ed intellettuale italiana sa di musica quanto e spesso meno del mio macellaio, ma un limite all’improntitudine sarebbe necessario.
Tant’è, le cose stanno così e, per fortuna, non costituiscono un insormontabile ostacolo ad un progetto di evoluzione e sviluppo di una didattica musicale degna di questo nome.
Didattica per competenze ed ascolto musicale: iperverbalismo e valutazione, un disagio a lungo irrisolto
La didattica musicale nella scuola dell’obbligo non ha, ovviamente, carattere di specializzazione. Nelle scuole ad indirizzo musicale compare lo studio “approfondito” di uno strumento (in realtà allo stadio di principiante e talvolta ben poco approfondito) ma la grande parte delle classi della primaria e della secondaria di I grado italiane (Primo Ciclo) possono al massimo usufruire delle canoniche due ore di Musica (vedi le considerazioni al riguardo) della secondaria. Nella primaria la disciplina è lasciata al libero arbitrio (in realtà alle competenze, quasi sempre assai scarse) dei gruppi di docenti.
Due le ore per la secondaria, come due i pilastri su cui, tradizionalmente questa disciplina si fonda: fare musica ed ascoltare musica.
Fare musica non interessa direttamente la nostra trattazione, volutamente centrata sulla pratica sistematica dell’ascolto, ma è chiaro che in quell’ambito il potenziale di sviluppo delle competenze, almeno in teoria, è enorme. Suonare, come dipingere o giocare a pallavolo è già di per sé un “compito autentico”, la realizzazione pratica di un percorso che, partendo semplici fondamentali teorico-pratici, dovrebbe portare il ragazzo, nel corso degli otto anni del ciclo primario, a cantare o suonare con un minimo di autonomia, a mettere autonomamente in pratica, cioè, ciò che ha imparato nel corso di studi. Il “dovrebbe” è d’obbligo, perché una conto è auspicarlo e teorizzarlo come fanno gli indirizzi ministeriali, ben altro è giungere ad un compimento dell’opera.
In ogni caso, una valutazione, sia pur soggettiva, da parte del docente, non presenta, di solito, grandi difficoltà. Se una rubrica valutativa (reale o ideale) viene ben costruita, la sua applicazione non comporta grandi difficoltà, salvo dipendere necessariamente dalla soggettività di giudizio del docente. Scordiamoci una valutazione docimologica, con criteri rigidi ed universali. Sarebbe non solo impossibile, ma perfino ridicola e contraria all’essenza della disciplina che rifugge da eccessive schematizzazioni di sapore scientista.
Ben diverso è invece il concetto di “ascoltare” la musica. Qui mi fa piacere richiamare alcune valutazioni contenuto nel testo di Carlo Delfrati “Fondamenti di pedagogia musicale” che ho riportato nel post “Un caso speciale di competenza trasversale: l’educazione linguistica” che vi consiglio di leggere come premessa.
Credo che il pericolo maggiore per il docente di Musica sia proprio quello di cedere alla tentazione, sempre presente, di trasformare la propria lezione in una sorta di ora di Lettere applicata alla Musica. Di trasformare, cioè, la Musica in una argomento storico-letterario, spesso fortemente nozionistico, dove alla fine, in sede di valutazione, si chiede all’alunno di indovinare la data di nascita di Verdi, di spiegare la trama del Don Giovanni di Mozart o di illustrare, al più, a parole, la struttura della Forma Sonata. L’utilizzo di argomenti desunti da altri generi musicali o da altre culture musicali non cambia l’assunto. Tutt’al più si chiede la data di nascita di John Lennon.
[Non ne erano esenti nemmeno gli istituti di alta formazione musicale. Nei miei ricordi dei tempi degli studi al Conservatorio è centrale il biennio di Storia della Musica, affrontato per tutto il suo sviluppo col supporto di un solo ascolto (!), relativo allo Jephte di Carissimi. D’altra parte è rivelatore il fatto che alla domanda “Perché ti piace quella canzone?” l’adolescente risponda sempre riferendosi al testo, di solito conosciuto a memoria. Eventuali riferimenti alla musica sono assolutamente generici, del tipo: “Mi piace la musica scatenata”. Della musica che permea le loro giornate, esattamente come dei capolavori beethoveniani, non sanno descrivere praticamente nulla. ]
In questo atteggiamento libresco, indulgono ormai da anni quasi tutti gli autori di testi scolastici. Dopo l’innovazione nell’editoria seguita all’introduzione dei Nuovi Programmi del ’77, con la comparsa dei testi firmati dai Delfrati, Tafuri, Della Casa ecc., nei decenni successivi la progressiva normalizzazione ha portato all’omologazione del modello sino al suo compimento finale, che oggi possiamo ben valutare aprendo uno qualunque dei testi attuali: carta patinata (pesantissima, con buona pace dei consigli dei medici), immagini bellissime, ricche raccolte strumentali e vocali, accessori sempre più evoluti anche sotto la spinta della forzata digitalizzazione, con video, accessi internet e gadget il più possibile interessanti e colorati; ma se ci soffermiamo a valutare l’impostazione di questi testi super tecnologizzati, con delusione dobbiamo accettare la realtà: la struttura è sempre quella ante ’77, una parte strumentale ed un’altra dedicata all’ascolto, quest’ultima declinata secondo un ferreo criterio cronologico, partendo dalla musica dei Greci e (o dei primitivi) fino alle forme più o meno commerciali del momento.
D’altra parte non sarebbe generoso dare tutta la colpa di questa situazione agli autori ed editori, che lavorano sotto l’influsso delle preferenze, spesso di comodo, dei docenti, quasi mai viceversa.
Insomma, ecco il perfetto fondamento o, se preferite, l’ausilio ideale alla didattica musicale “a parole”, di solito costruita su questa semplice sequenza:
- Io ti spiego un brano
- Io te lo faccio ascoltare una volta (talvolta invertendo questi primi due passaggi)
- Tu rispondi a un questionario scritto oppure orale sul brano ascoltato.
La musica si fa parola e parola resta definitivamente.
Per anni mi sono dibattuto nel disagio di questo schema che non trovavo soddisfacente perché ben poco aveva in comune con la mia voglia di trasmettere un’effettiva potenzialità di comprensione del linguaggio musicale. Ho chiesto a molti colleghi la loro opinione ma senza ottenere risposte soddisfacenti. L’iperverbalismo lamentato da Delfrati, ossia “la tendenziale riduzione delle discipline ai loro contenuti ed alle loro procedure verbalizzabili” dettava legge.
Come giungere quindi ad una sistema di valutazione che possa mettere a contatto l’alunno con la materia musicale, proponendogli di valutarla ed esprimere la propria capacita di comprensione dei contenuti emotivi e tecnici della disciplina, partendo dall’ascolto e riascolto del brano e non dalla lettura del testo di musica?
Il mio disagio, durato decenni, ha cominciato a intravedere uno spiraglio di luce solo quando si è cominciato a parlare seriamente di didattica per competenze, accompagnata dal tentativo, ancora non del tutto accettato da molti docenti di cambiare la programmazione per raggiungere un obiettivo comune che non fosse semplicemente la valutazione di contenuto acquisti (conoscenze) e di qualche semplice abilità, ma di dare all’alunno la possibilità di esprimere compiutamente ed in libertà, durante le occasioni canoniche come in occasione del famigerato colloquio d’esame, la propria adesione e partecipazione all’esperienza musicale.
Didattica per competenze ed ascolto musicale: ascoltare cosa, e come?
Il termine “ascolto” è molto spesso presente nelle trattazioni sull’apprendimento con molteplici significati. Il più comune si riferisce alla capacità dell’individuo di recepire e decrittare un messaggio sonoro, per lo più verbale, ed in questo analogo al messaggio scritto, comprendendone il significato. Io ti parlo, tu mi ascolti e comprendi ciò che ti dico. Nei curricoli e nelle programmazioni scolastiche questa è l’interpretazione più comune del termine.
“Saper ascoltare” e capire ciò che si è ascoltato è – oggettivamente – un’abilità trasversale ad ogni disciplina, sia essa umanistica che scientifica e trova nelle discipline linguistiche il suo trionfo: ascoltare e ripetere, ascoltare e riassumere, ascoltare e acquisire determinate abilità (per es. la pronuncia in una lingua straniera).
Siamo sempre nel regno della parola e saper ascoltare assume un ruolo importante, direttamente o indirettamente, in tutte le 8 competenze chiave europee, le macrocompetenze pubblicate il 18 dicembre 2006 sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea sotto forma di Raccomandazione del Parlamento Europeo Parlamento Europeo e del Consiglio. Non a caso la prima delle otto competenze, la “Competenza nella madrelingua” comporta l’abilità di utilizzare il patrimonio lessicale ed espressivo della lingua italiana secondo le esigenze comunicative nei vari contesti: sociali, culturali, scientifici, economici, tecnologici. Nella seconda, “Competenza nelle lingue straniere“, ecco questa abilità di nuovo in primo piano: padroneggiare la lingua inglese (qui ci sarebbe molto da discutere!) e un’altra lingua comunitaria per scopi comunicativi. E via così per le restanti sei, la capacità di ascoltare (e comprendere) è centrale.
Tutto bene? No.
Il problema nasce quando si parla di ascolto musicale, un tipo di ascolto particolare, il più delle volte ignorato dai testi e dalle statuizioni non specialistiche, quasi che ascoltare la lettura di un testo od una spiegazione sia la stessa cosa che ascoltare un brano musicale. Eppure è evidente, oltre che scientificamente provato, che nell’ascolto musicale, come nella pratica musicale, entrano in gioco meccanismi psichici diversi da quelli messi in campo da un comune ascolto, per esempio, di un discorso. Innumerevoli sono ormai le trattazioni a carattere scientifico o divulgativo. Non a caso nel caso del linguaggio verbale parliamo di prosodia, mentre in musica distinguiamo melodia, armonia, ritmo, timbro ed altre amenità particolarissime.
[Celiando ma non troppo, potremmo notare che, se si è accertato che la musica di Mozart è utile per aumentare la produzione nelle vacche da latte ed ha effetti anche sulle piante oltre che in musicoterapia, non altrettanto ci risulta che sia possibile con la lettura a di Dante o di Goethe.]
La musica è quindi un linguaggio molto complesso con sue proprie specificità.
Non è questa la sede per addentrarci in approfondimenti sui meccanismi cognitivi e meta-cognitivi che regolano i vari tipi di ascolto.
Un dato di fatto è però certo: ascoltare un brano musicali, sia come ascoltatori passivi (mentre altri suonano) che in qualità di ascoltatori attivi (per esempio ascoltare i compagni mentre suoniamo tutti insieme) mette in gioco processi mentali ed emotivi diversi dall’ascolto di un semplice brano letterario.
[Non a caso i Romantici sostenevano che la musica prende avvio dove il linguaggio parlato cessa la sua capacità di espressione, quasi ne fosse un prolungamento, o meglio, un potenziamento. Nel mentre, i pittori sognavano di poter in qualche modo riprodurre, nel paesaggio, l’immaginaria profondità di campo e l’ampiezza di vedute che solo la musica può proporre. La musica diventava quindi il linguaggio romantico per eccellenza]
Per questo è singolare che nelle programmazioni e nei vari consessi scolastici (consigli di classe, incontri di programmazione) a farla da padrone su questo argomento siano spesso i docenti di Lettere che inevitabilmente ne propongono una visione molto limitativa (talvolta anche per colpa dei docenti di Musica che glielo permettono, per ignavia o per necessità).
Per fare chiarezza vorrei quindi proporvi tre diverse stili cognitivi che attengono ai tre più comuni livelli di competenza nell’ascolto musicale:
- Ascolto passivo (estremamente comune)
E’ caratteristico delle situazioni in cui la musica costituisce un elemento di sfondo, più o meno presente, che accompagna situazioni di normale attività. Non richiede competenze particolari e spesso risulta nocivo alla creazione di specifiche competenze nell’ascolto perché abitua ad una pratica superficiale e non consapevole della potente valenza comunicativa della musica in quanto linguaggio altamente specializzato.
Si realizza più comunemente nei sottofondi musicali in negozi o studi professionali, nell’ascolto distratto di musica durante le faccende casalinghe, nell’ascolto di musica camminando per la strada (e pensando ai fatti propri), nel sottofondo musicale in locali come ristoranti o piano-bar, in quasi tutta la musica da film e in mille altre occasioni giornaliere.
Esito: quasi sempre nullo se non negativo, perché non genera acquisizione di specifiche competenze musicali e comunicative e può anche diventare sgradevole: avete mai provato a cenare in un locale dove si diffonde musica troppo forte o invadente?
- Ascolto emotivo-empatico (abbastanza comune)
E’ l’ascolto partecipe che sfrutta la naturale predisposizione alla comprensione del linguaggio musicale che ognuno, in diversa misura, porta con sé. Poiché esso può contare su un livello di comprensione basato anche su sensazioni dirette (il suono in sé, che costituisce una peculiare esperienza sensitiva e psicologica) e su una partecipazione emotiva non necessariamente mediata da conoscenze tecniche, è possibile accostarsi all’ascolto in modo empatico e fruttuoso dal punto di vista comunicativo, percependo gli elementi e le modalità di fondo della comunicazione musicale in forma spesso addirittura inconscia.
Costituisce un primo livello di fruizione del linguaggio musicale che, lungi dall’essere passiva, permette all’ascoltatore di godere degli aspetti espressivi ed emozionali, coloristici e ritmici pur senza possedere precise competenze musicali. Se guidato correttamente può costituire il primo passo per l’acquisizione di competenze specifiche nel campo del linguaggio musicale.
Si realizza, per esempio, nell’ascoltare a livello emotivo, senza particolari conoscenze musicali, in uno stato di rilassamento e immediatezza emotiva che prevalgono fra gli ascoltatori “profani” o nel suonare a livelli più elementari, per il puro piacere di suonare, senza prescrizioni tecniche o metodologiche.
Esito: per lo più positivo, costituisce un’esperienza sensoriale ed emozionale utile ad iniziare a comprendere gli elementi espressivi di base del linguaggio musicale e avviare verso l’acquisizione di competenze elementari, sia musicali che comunicative.
- Ascolto analitico-sistematico (poco comune)
E’ l’ascolto partecipe ed analiticamente efficace che richiede come base l’aver acquisito un livello di competenza sufficiente, sia sul piano tecnico che comunicativo. Permette di comprendere le enormi potenzialità espressive del linguaggio musicale e di utilizzarle per comunicare in varie forme. Richiede ascolto attento e consapevolezza ed è fonte di ulteriore incremento delle proprie competenze musicali. E’ necessario complemento al “fare” musica, crea le premesse per un uso della musica di tipo creativo e potenzia la comprensione degli aspetti emozionali ed espressivi del messaggio. E’ tipico dei professionisti o degli ascoltatori evoluti.
Per esempio: suonare a buon livello qualitativo (suonare presuppone ascoltarsi “dall’esterno” ma anche intimamente); ascoltare professionalmente e criticamente, riuscendo a percepire le modalità espressive tipiche di questo linguaggio, avendone una conoscenza sufficiente dal punto di vista tecnico, storico e comunicativo.
Esito: sempre positivo, arricchisce le competenze musicali e permette la comprensione del linguaggio sul piano psicologico e comunicativo. Nelle forme più avanzate è componente fondamentale delle prestazioni professionali (esecuzione, analisi critica, fruizione completa).
Abbiamo messo sul tappeto un bel po’ di concetti, utili ad una riflessione su cosa e come ascoltiamo la musica e sulla specificità di questa esperienza.