L’opera italiana tra Ottocento e Novecento
L’opera italiana, nel periodo dopo Verdi e prima dell’avvento di Giacomo Puccini, risente di una certa crisi: si fa evidente il contrasto tra il linguaggio tradizionale dello stile italiano sempre fortemente legato alle ragioni del canto e quello moderno, wagneriano. In questo clima acceso, si assiste all’avvicendarsi di compositori che in maniera più o meno marcata risentono dell’influenza wagneriana.
Combattuto tra la fede alla tradizione dell’opera italiana e le nuove tendenze musicali fu Arrigo Boito (1842-1918). Boito è un fervido sostenitore di quell’aggiornamento della musica italiana soprattutto verso il modello europeo, cioè quello wagneriano in particolare, abbandonando le “forme chiuse” per indirizzarsi verso uno stile eclettico inserendo procedimenti armonici e timbrici ancora sconosciuti al tradizionale gusto italiano.
Lo testimonia il suo “Mefistofele” (1868 e revisionato nel 1875), la sua unica partitura che ancora oggi si rappresenta con una certa frequenza. È un’opera dallo stile decisamente versatile, ma allo stesso tempo originale e fuori da ogni cliché. Il carattere ipercritico di Boito, il suo modo eccessivamente intellettuale di affrontare la composizione, gli hanno tolto via via spontaneità. Ne è prova evidente “Nerone”, opera rimasta incompiuta e rappresentata in una versione completata, nel 1924.
Ben altro carattere hanno le opere di Amilcare Ponchielli (1834-1866). Interessante melodista, deve a Verdi l’uso del declamato melodico, la ricerca di forti tinte passionali e di effetti teatrali; ma le sue maggiori qualità come operista si scorgono nell’espressione malinconica, il lirismo delicato e nostalgico. La sua “Gioconda” (1876), cupo dramma di passioni ed intrighi, si dipana in un succedersi di arie, duetti, balletti e concertati di gusto decisamente tradizionale e con una vena melodica di facile impatto.
Un carattere innovatore traspare invece in modo evidente nella musica di Alfredo Catalani (1854-1893): le sue opere più celebri sono, “Lorelay” (1890) e soprattutto “Wally” (1892). Testimoniano uno stile italiano raffinato, mai incline a facili effetti, in perfetto equilibrio tra voce ed orchestra, un’orchestra che, per la sua originale vena lirica, piena di malinconia e tenerezza, influenzerà l’opera pucciniana.
Una nuova espressione sembra voler entrare nel mondo teatrale italiano: il verismo. Con “Cavalleria rusticana” (1890) di Pietro Mascagni (1863-1945) e “Pagliacci” (1892) di Ruggero Leoncavallo (1857 – 1919), l’opera italiana voleva prendere definitivamente le distanze dal mondo wagneriano. Queste due opere sono due atti unici, carichi di passioni violente che la musica doveva sottolineare e non smussare contro l’imponente staticità dei drammi wagneriani. Il canto è sempre dominante e sgorga dall’impeto dei sentimenti che non hanno sviluppo né gradazione, ma nascono già potenziati al massimo e si liberano a piena voce, in un’azione inesorabilmente tragica. Così in “Cavalleria rusticana”, mentre si compie il solenne incedere della festività pasquale, si celebra il rito ancora più ancestrale dell’amore e dell’onore. Accadde lo stesso in “Pagliacci” dove il gioco si fa apparentemente più sottile: il dramma nella vita, la vita nel dramma, quel teatro nel teatro che sembra risolversi solamente nel delitto finale, con quella frase “La commedia è finita” che chiude repentinamente l’opera. È comunque un fatto che l’impeto che ha contrassegnato la nascita dell’opera verista non si è sviluppato come un fenomeno durevole e le stesse cariche di Mascagni e Leoncavallo sono proseguite in un alternarsi di opere dagli esiti diversi senza trovare uno spazio stabile nel normale repertorio teatrale.
Seguace del verismo fu Umberto Giordano (1867-1948). La tensione sonora e soprattutto vocale che caratterizza quelle che sono le sue partiture più famose, “Andrea Chènier” (1896) e “Fedora” (1898), appare alquanto alterna nei lavori successivi, afflitti da forti disomogeneità espressive e di ispirazione, malgrado la capacità di Giordano di mantenere un notevole senso del teatro.
Decisamente più sfumato, più incline alle mezzetinte di scuola francese che non alle temperie del verismo è l’operismo di Francesco Cilea (1866-1950). Le sue opere più celebri, “L’Arlesiana” (1897) e “Adriana Lecouvreur” (1902) considerata il suo capolavoro oltre a mettere in luce una particolare cura nel ritrarre le eroine femminili (Adriana è sicuramente uno dei personaggi che, come Norma e Tosca, è tra i più ambiti da ogni soprano), mostra un lirismo e una vena melodica semplici, ma assai efficaci da un punto di vista teatrale.
Assai controverse sono le produzioni operistiche di Antonio Smareglia (1854-1929) e Alberto Franchetti (1860-1942). Entrambi si trovano in una posizione intermedia tra le influenze veriste e la predisposizione ad una certa magniloquenza post-wagneriana. Di Smareglia si ricorda principalmente l’opera “Nozze istriane” (1895), composta sull’onda dei recenti successi di “Cavalleria rusticana” e “Pagliacci”, che mostra una certa immediatezza ed un buon equilibrio teatrale. Così non avverrà per le successive opere di Smareglia: efficaci da un punto di vista dell’orchestrazione, ma non altrettanto dal punto di vista della vocalità e della vena melodica di non grande efficacia espressiva. Lo stesso discorso può valere per Franchetti, autore di “Cristoforo Colombo” (1892) e “Germania” (1902). Le sue opere hanno goduto di una certa popolarità, sebbene mostrino una certa tendenza all’enfasi e alla magniloquenza, con esiti alquanto discontinui.
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