di Salvatore Margarone
Bellissimo accostamento nel programma proposto in questa serata, in cui l’enfasi dirompente del pianista Alberto Nosè apre il penultimo appuntamento della stagione, diretto dalla bacchetta di Philipp von Steinaecker, nel Concerto per pianoforte e orchestra n. 5 op. 73 in mi bemolle maggiore detto “L’Imperatore” di Ludwig van Beethoven.
Inizia così quindi la serata al Teatro Ristori di Verona, con la grandiosità di questa bellissima composizione per pianoforte e orchestra eseguito in maniera impeccabile sia dall’Orchestra Filarmonica di Verona che dal pianista. Un mirabile affondo nel tocco pianistico di Nosè lo contraddistingue per l’intera esecuzione, oltre ad un notevole gusto musicale fuori dal comune. Pur essendo una composizione classica, il Concerto n° 5 “Imperatore” contiene dei momenti intimissimi e lirici, molto ben sottolineati dal tocco e dal fraseggio di Alberto Nosè.
Questo Concerto fu composto da Beethoven durante l’anno 1809, forse già abbozzato verso la fine dell’anno precedente, e offerto all’editore Breìtkopf in data 4 febbraio 1810; dedicato all’arciduca Rodolfo, venne eseguito una prima volta privatamente a Lipsia da Friedrich Schneìder, forse il 28 novembre 1811, e quindi in pubblico a Vienna il 15 febbraio 1812 da Cali Czerny.
Il titolo di Imperatore che lo accompagna non è originale e sembra sia stato messo in circolazione dal pianista e editore J.B.Cramer; è possibile che l’invasione francese di Vienna, contemporanea alla composizione del concerto, abbia contribuito alla fortuna di quel titolo, anche se a quel tempo Beethoven non nutriva ormai nessuna simpatia per le idee di rivoluzione.
La grandiosità del Quinto e ultimo concerto per pianoforte e orchestra, collegate alla tonalità eroica e solenne di mi bemolle maggiore, si sposa in modo sorprendente con una amabilità che prosegue il clima del Quarto Concerto: il riscatto poetico dell’ornamentazione (scale, arpeggi, trilli), o la ricerca di una sonorità da glockenspiel nel registro acuto del pianoforte, sono comuni alle due opere.
Il tema principale del primo movimento (Allegro), quando è assunto dall’orchestra risulta di imponente muscolatura, ma poi, affidato al pianoforte di Nosè, risulta addolcito nei contorni; nello sviluppo la dinamica del conflitto fra orchestra e solo ha momenti evidentissimi, ma non superiori agli indugi poetici proposti dal pianoforte con imprevedibile fantasia.
Dal punto di vista formale va notata l’abolizione della cadenza, tolta dalla sua casella alla fine del movimento («non si fa nessuna cadenza, ma s’attacca subito il seguente» scrive Beethoven) e assunta lungo tutto il brano come elemento portante e costruttivo: funzione già evidente nelle prime battute, con le cadenze virtuosistiche che il pianoforte estrae dagli accordi dell’orchestra.
Il tema dell’Adagio un poco mosso ha la compostezza di un corale e al tono di raccoglimento contribuisce l’uso della sordina per gli archi; il brano è collegato direttamente all’ultimo movimento mediante due battute di transizione che ne anticipano l’idea fondamentale: è un Rondò (Allegro) dominato da un inesausto slancio ritmico interrotto solo da arguti episodi in “rubato“, da improvvise modulazioni che, come nel primo movimento, cementano lo spirito improvvisatorio della cadenza nella logica del discorso sonatistico.
Ottima è stata quindi l’esecuzione del pianista Alberto Nosè che ne ha curato i minimi dettagli e che, acclamato dal pubblico, ha regalato ben tre bis prima di congedarsi: Skrjabin, Preludio op.9 e Notturno op.9 in cui è emersa ancor di più la musicalità e l’equilibrio di suoni creati dalla sola mano sinistra accompagnato sempre da un legato e da un fraseggio che ha lasciato senza fiato gli intervenuti, e a seguire lo Studio op.2 n°1 che ha concluso il suo intervento.
Abbiamo incontrato il pianista Alberto Nosè nel suo camerino alla fine del concerto, che ha gentilmente risposto anche ad un paio di domande, che riportiamo integralmente:
Come mai ha scelto Skrjabin per i tre bis concessi?
Skrjabin è un compositore che, oltre a Chopin, mi piace moltissimo, ultimamente è anche ricorso il suo anniversario e l’ho voluto omaggiare in questa maniera. Sono molto legato a questo compositore, mi piace scoprirlo ed anche suonarlo; è quasi uno Chopin un po’ decadente, a mio parere, lo considero come un’erede di Chopin: se quest’ultimo fosse vissuto più a lungo sarebbe arrivato a composizioni simili.
Questa scelta di affiancarlo con il programma di questa sera, con il Concerto n°5 di Beethoven?
Di solito cerco di proporre dei fuori programma diversi, per periodo e stile; dopo tanta quantità di suoni, ritmica rigida, i tutti orchestrali e difficili passaggi tecnici al pianoforte, mi sembrava opportuno staccare un po’ con una sonorità più intima proponendo Skrjabin.
La seconda parte della serata continua con una chicca: uno splendido quanto mai elegante estratto dall’opera-ballet Les fêtes d’Hébé di Jean Philippe Rameau.
Composizione del barocco francese che, con la sua alternanza di danze, ha contribuito alla grande festa della musica di tutti i tempi. Di rara esecuzione, quest’opera di Rameau rappresenta quanto di più alto musicalmente si è tramandato a noi di quel periodo musicale (estintosi alla fine del XVII secolo) e scritto soprattutto per i balli della corte di Versailles di Luigi XIV.
Ottima la resa orchestrale, anche se in qualche momento si è avvertito qualche defaillance tra gli strumenti, totalmente giustificata stante la difficoltà che la partitura presenta.
Ha concluso la serata l’esecuzione della suite da concerto Pulcinella tratta dall’omonimo balletto, composta di otto numeri dei diciotto originari. In essi le voci sono sostituite dagli strumenti, e ciò accresce la genialità di questa singolare rivisitazione del Settecento napoletano, una delle pietre miliari del neoclassicismo novecentesco.
Per la prima volta, rifacendosi ad un materiale proveniente dal passato (nel nome del massimo rappresentante della scuola napoletana, Giovanni Battista Pergolesi), Stravinskij stabiliva un rapporto tra avanguardia e tradizione, tra libera invenzione e ricalco stilistico di procedimenti compositivi lontani nel tempo: assunti, questi ultimi, non per essere restaurati, ma per risuonare come voci immediate del presente, con i tratti inequivocabili della modernità.
In questo senso ha poca importanza che buona parte dei materiali su cui lavorò Stravinskij fossero falsi pergolesiani, come le indagini più recenti hanno dimostrato (solo nove dei pezzi inseriti nel Pulcinella sono davvero di Pergolesi): ciò che conta è il gesto, e in secondo luogo la realizzazione, ossia la saldatura di passato e presente sul piano di una appropriazione disinvolta perché puramente musicale.
Dove la vertigine che avvolge con le sue armonie dissonanti e i suoi ritmi spezzati il materiale di partenza si ricompone nella nitidezza di una strumentazione incredibilmente ricca di trovate, pur nell’organico limitato dell’orchestra da camera.
Ognuno degli otto pezzi circoscrive un mondo sonoro ed espressivo a sé stante, ben al di là dei riferimenti a forme volutamente classiche (dalla Ouverture alla Serenata, alla Tarantella, dalla Toccata alla Gavotta con variazioni, al Minuetto che precede il gran finale); essi coniugano un lucido virtuosismo a un gusto dello spiazzamento e della sorpresa, che ne è il connotato fondamentale: con diversi tipi di intervento che vanno dalla funzione straniante, grottesca e caricaturale della strumentazione (esempio massimo l’uso sfrontato del trombone nel settimo brano, Vivo), alla solare immedesimazione nell’estrosa vitalità dei ritmi e nelle figure di un paesaggio dai colori accesi. Visto però attraverso la lente d’ingrandimento di particolari deformati, come nei quadri di Picasso.
Diremo perfetta, a questo punto, l’orchestrazione di Philipp von Steinaecker in questa serata, anche nella scelta dei tempi di esecuzione, brillanti e ben ritmati, e suoni ben calibrati dall’Orchestra Filarmonica di Verona che ha dimostrato versatilità nel programma di questa sera che ha spaziato dal ‘700 al ‘900 inoltrato.
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