Storia dell’Opera: il 1700 opera buffa e seria.
Continuiamo il nostro viaggio nella Storia del Melodramma. Dal 1700 in poi si avrà la distinzione dei due generi operistici: l’opera seria e l’opera buffa.
Puntata Quarta
Così come Venezia era stata nel XVII sec. il principale palcoscenico italiano, ora questo primato passa a Napoli, che diventa una vera e propria fucina dell’arte musicale e non solo. La strada aperta da Alessandro Scarlatti trova subito in Leonardo Vinci (1690-1730) un appassionato successore. Con il suo primo lavoro “Lo cecato Fauzo” (1719), fu tra i primi a scrivere l’opera buffa in dialetto napoletano (l’aspetto dialettale, in particolare quello napoletano, lo ritroveremo ancora in opere di Rossini e Donizetti), ma fu anche un autore di opere serie, fra cui alcune su libretti di Metastasio: “Didone addormentata”, “Alessandro nelle Indie”, “Artaserse” e “Catone in Utica”. Nelle sue opere si trova un ulteriore sviluppo dell’aria tripartita, una maggiore differenziazione della sezione centrale che accentua così il contrasto con le altre parti.
Altra figura di spicco nel vasto panorama musicale napoletano è Leonardo Leo (1694-1744) uno dei più interessanti compositori, tra l’altro molto apprezzato come clavicembalista, di commedie musicali genere d’opera tipicamente napoletano, che accostava il linguaggio dell’opera seria a quello dell’intermezzo.
Ma è Giovanni Battista Pergolesi (1710-1736) quello che più d’ogni altro viene ricordato come tra i più celebri, se non il più celebre autore dell’opera seria napoletana. In anni in cui l’opera settecentesca era caduta nell’oblio più totale, il nome di Pergolesi è sempre rimasto nella considerazione dei posteri. Lo si ricorda soprattutto per il suo intermezzo “La serva padrona” o per lo “Stabat Mater”, ma le sue opere serie, come ad esempio “Adriano in Siria” (1734) o “L’Olimpiade” (1735) contengono alcune tra le più belle pagine vocali dell’operismo settecentesco, sebbene poco apprezzate dai contemporanei. “L’Olimpiade”, su libretto di Pietro Metastasio, andata in scena a Roma nel gennaio del 1735, fu un clamoroso fiasco; sul palco volarono verdura e frutta e un’arancia colpì Pergolesi seduto al cembalo, postazione dalla quale allora si dirigevano le composizioni. Il tumulto che ne seguì, costrinse l’orchestra e i cantanti alla fuga. L’insuccesso fu quasi sicuramente orchestrato, ma l’accusa all’opera di essere “troppo fine” la dice lunga sulla grande modernità ed eleganza del linguaggio di Pergolesi. Il duetto tra Megacle e Aristea, che chiude il primo atto, è stato considerato come “modello” e venne imitato da molti altri compositori contemporanei.
Da questo momento in avanti, l’opera italiana ha una vasta diffusione nell’Europa che fin a quel momento restava ancorata ai suoi schemi ed usi musicali.
Ma facciamo un breve passo indietro, per dire che il XVIII sec. non è solamente il secolo dell’opera seria, ma vede anche l’affermazione dell’opera buffa. Avevamo visto come elementi buffi fossero già presenti nel lavoro di Monteverdi o di Cavalli. Nel Settecento il genere buffo assume connotazioni abbastanza diversificate: l’opera seria bandisce dalle proprie auliche vicende situazioni comiche, relegandole ai margini, cioè tra un atto e l’altro. Ecco, dunque, nascere l’Intermezzo, brevi scene affidate a due personaggi, generalmente una servetta o una contadina, comunque sempre un ruolo di estrazione popolare, la quale amoreggia o litiga con il proprio fidanzato, o corteggia, per migliorare il proprio stato sociale, un vecchio borghese (mai un aristocratico). Tra gli intermezzi più celebri ricordiamo “Pimpinone” (1708) di Tommaso Albinoni, rappresentato insieme ad un’altra sua opera, l'”Astarto“, e quelli di Pergolesi, “La serva padrona” (1733) rappresentata con l’opera “Il prigionier superbo“, “Livietta e Tracollo” (1734) che si alternò agli atti dell'”Adriano in Siria” ed ancora la “Larinda e Vanesio” (1736), di Johann Adolf Hasse, andata in scena con il suo “Astarto”. Musicalmente semplici, senza pretese di virtuosismo, ma con una grande carica di freschezza musicale e di verve, con una grande capacità di ironizzare la società contemporanea, gli intermezzi sono generalmente composti da un alternarsi di arie e recitativi e qualche duetto.
Accanto all’intermezzo troviamo però anche il genere della commedia in musica: tipicamente napoletano, questo genere teatrale mescolava personaggi di popolani, che molte volte cantavano in dialetto e che spesso erano ripresi dalla commedia dell’arte, con altri di estrazione borghese ed aristocratica; una situazione tipica di questi lavori è data dal ricco borghese che cerca di far accasare la propria figlia con un nobile che, però, si rivela tragicamente spiantato.
Dei bellissimi esempi di commedie in musica sono, “Lì zite’ ngalera” (1722) di Leonardo Vinci, “Lo frate ‘nnammorato” e “Il Flaminio” (1735) di Pergolesi, l’ “Amor vuol sofferenza” (1739) di Leonardo Leo.
Da questo momento in avanti comincia quell’evoluzione stilistica che porterà i compositori dalla commedia in musica a sviluppare un nuovo genere, il dramma giocoso, che troverà il suo culmine nelle opere di Mozart, in particolare nel “Don Giovanni”.
Sarà proprio il dramma giocoso a prendere il sopravvento sull’ormai sterile opera seria. Questa continua ad offrire un mondo fatto di eroi, semidei, interpretati da voci “asessuate” come quella dei castrati, o da voci femminili che interpretavano ruoli maschili. Non vi era nessun tipo di realismo; le stesse scene e costumi rifuggivano da ogni tipo di realtà storica. D’altro lato la commedia in musica offriva un panorama ben diverso. Innanzitutto il personaggio era collegato ad un giusto timbro vocale: i personaggi diventano credibili e altrettanto credibile è lo sviluppo drammatico della vicenda, vivace e ricco di scene d’assieme, con un rapporto quanto mai stretto tra canto e recitazione. Un altro aspetto, non secondario, è dato dalla compenetrazione dei generi stilistici: assai di frequente nella commedia in musica, la vicenda si giocava sui contrasti tra personaggi provenienti da varie classi sociali: aristocratica, borghese e il popolo. Ecco dunque che i ruoli per così dire “elevati” cantano, con una certa punta di ironia, una vocalità che fa il verso a quella dell’opera seria, mentre gli altri si esprimono nello stile dell’intermezzo. L’opera seria vive in un mondo che potremmo definire “allegorico”, mentre l’opera buffa non sfugge alla realtà e quindi alla provocazione.
Il diffondersi dell’intermezzo e della commedia in musica di stampo napoletano in varie città italiane trova a Venezia un terreno particolarmente fertile. Nella città lagunare il campo dell’opera seria era dominato dalla figura di Antonio Vivaldi (1678-1741), abile musicista ed impresario spregiudicato. Dotato di una teatralità istintiva, Vivaldi ha composto opere nelle quali emergono quella freschezza e quella cantabilità, che sono le caratteristiche inconfondibili del suo stile. Tra i suoi lavori teatrali ricordiamo “L’incoronazione di Dario” (1717), “Farnace” (1726), “Orlando furioso” (1727) e “Catone in Utica” (1737).
Nel campo dell’opera buffa veneziana è fondamentale l’apporto di Carlo Goldoni (1607-1693) e della collaborazione che ebbe, tra il 1649 ed il 1755, con il musicista Baldassarre Galuppi (1706-1785). Le opere che scaturirono dall’incontro di queste due notevolissime personalità, “L’Arcadia in Brenta” (1749), “Il mondo della luna” (1750), “Il filosofo di campagna” (1754), “La diavolessa” (1755), tanto per citare alcune tra le più celebri, sono decisive per lo sviluppo dell’opera comica. In molte di esse è evidente il Goldoni commediografo, come ad esempio nell'”Arcadia in Brenta” nella quale si mettono in risalto i capricci e le debolezze dell’alta società veneziana. Il gruppo di nobili che si ritrovano nella villa che il borghese Fabrizio Fabroni possiede sul Brenta, ci riporta direttamente alla memoria le vicende narrate da Goldoni nella sua trilogia della “Villeggiatura”.
Il tema dell’opera buffa è quanto mai vasto e complesso e non si può certo trattare qui nella sua interezza. Sicuramente la fine del secolo XVIII vede l’apogeo di questo genere musicale. Perso ormai ogni contatto, diretto o indiretto, con l’opera seria, l’opera buffa, altresì chiamata commedia in musica, è ormai un universo pienamente autonomo e pronto a nuove compenetrazioni. Spetterà a Mozart portare al massimo splendore questo innovativo genere teatrale.
I più celebri operisti buffi di questo periodo, ma non dimentichiamo che gli stessi autori si cimentavano anche nel genere serio, sono sicuramente Giovanni Paisiello (1740-1816) e Domenico Cimarosa (1749-1801).
Con “Nina, ossia la pazza per amore“, Paisiello irrora l’opera comica di sfumature elegiache; il canto si piega alle ragioni espressive e psicologiche dei personaggi, con accenti che si possono tranquillamente definire preromantici. Uno dei più grandi successi della fine del secolo fu la prima rappresentazione, tenutasi nel 1792, de “Il matrimonio segreto” di Domenico Cimarosa su libretto di Giovanni Bertati. La freschezza, la bellezza del canto e la dinamicità dell’incedere teatrale, fanno di quest’opera il momento più alto del genere comico in Italia, in attesa di una nuova svolta che avverrà nel nome di Giacomo Rossini.
Ma analizziamo meglio quest’opera per capirne l’importanza storica.
Siamo verso la fine del 1791. Cimarosa ha ottenuto il congedo dalla Russia per poter tornare in Italia. Nel suo viaggio di ritorno, Vienna fu praticamente una tappa obbligata, dato che si trattava, al momento, della capitale europea della musica. Curiosamente, l’itinerario percorso dal musicista campano fu analogo a quello intrapreso da Paisiello nel 1784.
Morto Giuseppe II, il nuovo imperatore dell’impero asburgico è il fratello minore Leopoldo II (già Granduca di Toscana); al suo arrivo, Cimarosa, si vide subito commissionare un’opera dall’imperatore in persona; gli fu assegnato uno stipendio annuo di 12.000 fiorini (somma molto alta per l’epoca) e una casa.
L’opera fu destinata al Burgtheater, il più importante dei due teatri di corte, lo stesso in cui, poco più di cinque anni prima, furono rappresentate “Le nozze di Figaro” di Mozart.
Il debutto dell’opera avvenne il 7 febbraio del 1792. Fu un successo straordinario, che le cronache dell’epoca confermano con un interessante aneddoto. Sembra, infatti, che Leopoldo II (paradossalmente poco amante della musica) alla fine della rappresentazione ne abbia chiesto una replica integrale dopo aver invitato a cena il compositore e i cantanti. È un evento unico nella storia del teatro operistico, destinato a non ripetersi più. L’unico precedente riguarda “Le nozze di Figaro”, dove però furono bissati solo alcuni brani dell’opera, tanto che l’imperatore fu costretto ad emanare un decreto che limitava il numero dei “bis” da eseguire.
Ammettendo anche la poca fondata circostanza, quest’aneddoto ci dimostra la fama che subito accolse l’opera cimarosiana. Un successo che non fu solo momentaneo, ma che si spinse nei decenni successivi fino ad oggi. È interessante notare, infatti, che “Il matrimonio segreto” fu l’unica opera italiana del XVIII secolo a rimanere pressoché sempre presente nei cartelloni dei teatri d’opera dell’Ottocento, giungendo così ai nostri giorni.
Era usanza nella corte asburgica che i soggetti usati per le opere provenissero da un ambiente esterno rispetto a quello dell’impero stesso. È proprio il nostro caso: il libretto di Bertati, infatti, ha origini inglesi e francesi.
Il primo anello di congiunzione è rappresentato dal pittore inglese William Hogarth. Tra il 1743 e il 1745 egli dipinse un ciclo di opere chiamato “Le mariage à la mode“. Si tratta di sei dipinti (che oggi si trovano alla National Gallery di Londra) che rappresentano le conseguenze di un matrimonio concluso esclusivamente per interessi economici; conseguenze che si rivelano negative per il fatto che nelle ultime due tele del ciclo si rappresenta la morte dei due sposi. È, insomma, il tema del “matrimonio di interesse”, presente in molte opere letterarie e conosciuto praticamente da chiunque.
Ai nostri fini, ci interessa osservare e analizzare la prima delle tele del ciclo, intitolata “Il contratto“, più aderente alla trama dell’opera. Osservando il dipinto notiamo già la presenza di alcuni personaggi che, con la dovuta rielaborazione, sono presenti anche nell’opera di Cimarosa: il personaggio a destra è il Conte che, tormentato dalla gotta, ostenta orgoglioso il suo albero genealogico, a voler dimostrare il suo rango nobiliare. Sul tavolo ci sono monete e banconote: si tratta, com’è facile intuire, della dote che il Conte (ovviamente un nobile decaduto) ha ricevuto dalla famiglia della futura sposa. Il personaggio in piedi dietro il tavolo è un creditore del Conte: lo si capisce dal fatto che in una mano trattiene una somma di denaro proveniente dalla dote appena incassata, mentre nell’altra tiene un certificato ipotecario che sta per restituire al Conte, dal momento che il debito è stato estinto. All’altro lato del tavolo rotondo siede il padre della sposa appartenente al ceto borghese; l’artista lo ha dipinto mentre è concentrato nella lettura del contratto di matrimonio.
Gli altri personaggi rilevanti dell’opera sono naturalmente i due promessi sposi. La figlia del borghese appare imbronciata (a causa del matrimonio non desiderato) ed è raffigurata nell’atto di giocare con la fede nuziale appena infilata in un fazzoletto; il figlio del Conte, invece, si guarda allo specchio con una tabacchiera in mano e sembra narcisisticamente compiacersi di se stesso.
Il concetto espresso dal dipinto è ben sintetizzato dagli animali visibili sulla sinistra del quadro: i cani appaiono legati da una catena, a simboleggiare il legame appena instaurato tra il ceto nobiliare e quello borghese.
Come accennavo prima, si tratta di un ciclo che rappresenta una situazione molto comune all’epoca, cioè i matrimoni di interesse. La tematica principale che lega le sei tele è appunto il trionfo dell’interesse sull’amore. Tengo a sottolineare questo punto per il fatto che nelle rielaborazioni successive di questo topos (di cui sto per parlare) fino a Cimarosa si capovolgerà la prospettiva: sarà l’amore a vincere sull’interesse.
Il secondo passaggio è rappresentato dalla pièce teatrale ricavata dalle opere di Hogarth da parte dei due drammaturghi britannici David Garrick e George Colman, dal titolo “The clandestine marriage“, risalente al 1766. Questa pièce è molto importante perché si introduce una novità: il matrimonio d’interesse non sarà celebrato perché la fanciulla protagonista ha già sposato segretamente un suo coetaneo di umile condizione sociale.
Uscito dall’Inghilterra, il tema del matrimonio combinato si introduce in terra francese. Infatti, il musicista francese Joseph Kohaut si interessa alla commedia inglese e ne trae un’opèra-comique nel 1768, dal titolo “Sophie, ou Le mariage caché” su libretto di Madame Riccoboni.
L’ultima opera sul tema che precede quella di Bertati e Cimarosa è “Le mariage clandestin” di François Devienne su libretto di Joseph Pierre, risalente al 1790. A seguito del successo del “Matrimonio segreto”, la storiografia musicale cominciò ad accostare Cimarosa a Mozart. In realtà andrebbe fatto il contrario, cioè bisognerebbe accostare Mozart a Cimarosa. Mi spiego meglio.
È Mozart che deve molto a Cimarosa e non solo il contrario. O meglio, non tanto alla persona di Cimarosa, quanto piuttosto alla celebre Scuola musicale napoletana rappresentata dal musicista campano. Infatti, nel corso dei tre viaggi compiuti in Italia, Mozart giunge anche a Napoli, dove la sua celebre scuola è già al culmine del suo sviluppo musicale, specie nel campo dell’opera buffa. È qui che Mozart apprende degli archetipi, degli schemi, delle soluzioni teatrali che lo renderanno un insigne maestro in questo genere. Questo bagaglio di conoscenze si trova naturalmente nelle “Nozze di Figaro”. Insomma, senza Cimarosa e senza la scuola napoletana il Mozart dell’opera buffa non sarebbe quale noi oggi lo conosciamo: ugualmente geniale, ma probabilmente meno ricco da un punto di vista dell’invenzione musicale e della tecnica compositiva teatral
Nel prossimo articolo : L’Opera nel resto d’Europa.