L’Ottocento in Francia vede prevalere l’opera come genere musicale più in voga, a differenza della Germania dove il romanticismo porta alla creazione di capolavori anche nell’ambito della musica strumentale. Il genere dell’ opéra-comique non conosce crisi, supera il difficile momento della Rivoluzione, continuando a fiorire e a trovare sempre nuove linfe espressive. Nasce il grand-opéra.
Il principale esponente dell’opéra-comique della prima metà del XIX sec. è François-Adrien Boieldieu (1775-1834) nativo di Rouen, dove ebbe i primi rudimenti musicali e rappresentò i primi lavori teatrali. Trasferitosi a Parigi, nonostante il campo musicale fosse dominato da Cherubini e Mehul, riuscì a cogliere un certo successo con le opere “La calife de Baghdad” (1800). Ma fu in special modo al ritorno da San Pietroburgo dove aveva ricoperto la carica di Maestro di Cappella alla Corte imperiale (1803-1811), che la carriera di Boieldieu prese il definitivo avvio. I suoi maggiori successi sono: “Jean de Paris” (1812), opera dalla quale Donizetti trasse il suo “Gianni di Parigi” nel 1839, “Le petit chaperon rouge” (1818), una delle partiture musicalmente più ricche e soprattutto “La dame blanche” (1825). L’opera fu composta su libretto di Eugène Scribe, uno degli autori più fecondi dell’Ottocento francese, che a sua volta si era ispirato a tre romanzi di Walter Scott. Il rapporto tra libretto e opera è pressoché perfetto. La musica è spontanea, fresca e testimonia la chiarezza e la cura di Boieldieu per i colori orchestrali, in particolare negli strumenti a fiato: gli oboi, i flauti ed i clarinetti. La scelta del soggetto, con la sua giusta carica di mistero, rappresenta la risposta francese al diffondersi del gusto romantico. Così, Boieldieu diventa il più importante compositore francese che si pone a contrasto dell’opera italiana, impersonata da Gioacchino Rossini.
Allievo di Boieldieu, Adolphe Adam (1803-1856) rappresenta l’anima più leggera, più frivola dell’opéra-comique, come afferma egli stesso: “La mia sola mira è quella di scrivere musica che sia trasparente, facile da capire e divertente per il pubblico”. I suoi lavori più noti sono “Le postillon de Longjumeau” (1836) e “Si j’ etais roi!” (1852). Adam ha sicuramente influenzato la nascita di quella che, nel Secondo Impero, sarà l’operetta, di cui Jacques Offenbach diventerà il più celebre interprete.
Accanto all’opéra-comique si assiste alla nascita del cosiddetto grand-opéra che deriva dalla grande tradizione della tragédie-lyrique settecentesca. Il grand-opéra si contrappose all’opéra-comique. Il termine grand poi faceva capire che il carattere di questo spettacolo voleva essere nobile, grandioso, quasi sempre collegato a vicende tratte dalla storia. Questi aspetti sono già riscontrabili nelle opere di Spontini: nella grande scena del trionfo di Licinio de “La Vestale” ed ancor più nel “Fernando Cortez”. Chi però ne pone i caratteri fondamentali, che trovano pieno compimento nei lavori di Giacomo Meyerbeer, è Daniel François Auber (1782-1871). Auber iniziò ad affermarsi nel 1813: il suo primo lavoro, “Le sejour militaire”, risale a quell’anno. È il periodo in cui Boieldieu sta raggiungendo il suo apice compositivo, e Auber, con le sue trentasei opéra-comique ne è sicuramente il più diretto successore. Il “Fra Diavolo” (1830), “Le domino noir” (1837) e “Manon Lescaut” (1856) sono sicuramente le sue opéra-comique più interessanti e segnano in modo evidente l’evoluzione del genere. Certo è che il pubblico parigino era particolarmente affascinato dai lavori di grande impatto teatrale. Lo testimoniano i successi ottenuti da Rossini il quale, nel 1826, aveva portato in scena “Le siège de Corinthe”, ed un anno dopo, il “Moise”, opere grandiose e solenni. Auber decide così di cimentarsi in un lavoro di grande impegno e, con la collaborazione di Eugène Scribe si getta in un’avventura che porterà a risultati che non è azzardato definire rivoluzionari. “La muette de Portici”, del 1828, ebbe accoglienze trionfali. Il soggetto è doppiamente originale poiché il ruolo della protagonista è mimato anziché essere cantato ed inoltre perché si incentra su un fatto storico: la rivolta di Masaniello, il pescatore napoletano che, nel 1647, sollevò il popolo napoletano contro gli spagnoli. Sempre nel genere del grand-opéra, nel 1833, Auber portò sulle scene “Gustave III ou le bal masque”, un soggetto di grande efficacia drammatica che, in seguito ispirò anche Severino Mercadante per “Il reggente” (1843) e Giuseppe Verdi per “Un ballo in maschera” (1859). Il successo ottenuto da “La muta di Portici” non lasciò insensibili gli altri compositori, primo tra tutti, il Rossini del “Guglielmo Tell”.
Vi è poi il parigino Jacques Fromental Elois Halévy (1799-1862) ; la sua “Juive” (“L’ebrea”), composta su un soggetto dell’onnipresente Scribe, ormai consacrato a massimo librettista del grand-opéra (la sua opera proseguirà anche con Meyerbeer), venne rappresentata all’Opéra di Parigi il 23 febbraio 1835 e fu un trionfo. La partitura di Halévy contiene già tutti gli ingredienti cari al grand-opéra: grandi scene corali, balli, un’ambientazione storica. Un insieme di situazioni che Halévy sa anche rivestire di una musica che sfugge ad una facile enfasi, ma che è spesso frutto di una genuina espressione lirica.
Il momento di massimo splendore per il grand-opéra si ha dall’incontro di Scribe con il musicista Giacomo Meyerbeer (1791-1864) coincidente con uno dei momenti di massimo splendore dell’Opéra di Parigi, diretta all’ora da Louis Véron. Nativo di Berlino, italiano, o meglio “rossiniano”, di formazione e parigino d’adozione, Meyerbeer riunisce in sé le maggiori tradizioni operistiche europee: quella tedesca, dalla quale ha assimilato la grande tradizione strumentale, quella italiana, con l’arte del canto e quella francese, con il suo gusto per la spettacolarità. L’esordio parigino di Meyerbeer è subito segnato da un trionfo; il suo “Robert le diable” del 1831, permeato di elementi romantici e fantastici che si collegano direttamente al gusto della letteratura gotica, entusiasma i parigini. Cinque anni dopo (Meyerbeer sottoponeva le sue opere a continue revisioni, prima di rappresentarle) vanno in scena, il 29 febbraio del 1836, “Les Huguenots”, opera considerata il suo capolavoro. Il suo stile cosmopolita, la sua ricerca di effetti drammatici di grandissimo impatto, uno sviluppatissimo senso teatrale, l’amore per un’orchestra ricchissima sono i suoi tratti distintivi richiusi ne “Les Huguenots” che Hector Berlioz giudicherà come “un’enciclopedia musicale” aggiungendo poi che “Meyerbeer non solo ha il talento d’avere fortuna, ma ha anche la fortuna d’avere del talento“. Raccontando i terribili avvenimenti delle lotte di religione che culminarono nella notte di San Bartolomeo, quando i protestanti francesi (gli ugonotti cioè) furono trucidati dai cattolici, Meyerbeer raggiunge momenti musicalmente e teatralmente indimenticabili: un solo esempio, il quarto atto. Nella successiva produzione di Meyerbeer troviamo ancora due grand-opéra: “Le prophète” (1849) e “L’Africaine” (rappresentata postuma nel 1865), lavori che, sebbene pregevoli, mostrano una evidente discontinuità ispirativa. Sono invece notevolissime le sue due uniche opéra-comique: “L’étoile du Nord” (1854) e “Dinorah” (1859), che testimoniano come anche questo genere sia giunto ad altissimi livelli. Il segno lasciato da Meyerbeer, soprattutto nell’uso dell’orchestra è fondamentale: lo capirono benissimo Berlioz, ma anche Verdi, Wagner e molti altri compositori.
La carriera lirica di Hector Berlioz (1803-1869) fu assai tormentata da molti insuccessi e non fu certo prolifica. Il primo tentativo di imporsi come operista fu con l’opéra-comique “Benvenuto Cellini”, nel 1838. Ma fu un fiasco clamoroso. La figura di Benvenuto Cellini aveva appassionato Berlioz, poiché vi aveva trovato qualche tratto autobiografico: “un geniale bandito” in lotta contro le istituzioni dell’arte ufficiale. La partitura di notevole ampiezza come nel caso di molti altri lavori, si presentava troppo moderna e con notevoli difficoltà nell’esecuzione. Altrettanto duro fu il percorso de “Les Troyens”. Berlioz ne era conscio. Dal 1858 al 1863, l’Opéra di Parigi tenne il compositore sulle spine ed alla fine gli rifiutò la prima rappresentazione. Data alle scene mutilata (solo nella seconda parte) al Theatre Lyrique, nel 1863, questo grande capolavoro subì un numero continuo di ingiurie esecutive. Solo negli ultimi anni si è cominciato ad apprezzare il pieno valore della partitura. “Les Troyens” pagano un tributo minore al grand-opéra; la cornice formale che caratterizza spesso questi lavori, i balli, le scene corali, non sono gratuiti. Berlioz cioè, afferma David Cairns, “Non permette che ci si dimentichi mai della sua idea centrale: il grandioso destino di una nazione che scavalca inesorabilmente le tragedie personali di Cassandra e Didone. Il soggetto dei “Troyens” è il fato. Il fato e le sofferenze degli esseri umani che sotto la sua ombra vivono e lottano con generosa fierezza“. Berlioz ritorna al genere dell’opéra-comique con “Beatrice et Benedict” che il musicista aveva tratto, componendo lui stesso il libretto, dall’autore che amava sopra tutti, Shakespeare, e precisamente da “Molto rumore per nulla”. Rappresentata al Festival di Baden-Baden nel 1862, quest’ultima opera con la sua freschezza, i suoi languori mediterranei, con “il morbido arabesco della melodia, porta in una temperie diversa, ad un sottile respiro decadente, che preannuncia il Settecento straussiano”. Con “Beatrice et Benedict” Berlioz pone definitivamente il suo distacco dall’avanzare del dramma wagneriano che stava per sconvolgere il mondo dell’armonia tradizionale.
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