La Bohème presentata a Torre del Lago, con la regia di Christophe Gayral, non merita tutto il clamore e le polemiche che la hanno accompagnata in questo inizio stagione.
Non le merita perché nonostante l’ambientazione sessantottina non si presta certamente a discorsi politici.
C’è solo la rappresentazione sterile di un vacuo simbolismo che fa da sfondo senza però avere nessuna forza o veicolare un messaggio.
Rimane quindi la sostanza.
E la sostanza è che si tratta ancora di quei ragazzi,descritti prima nel libro di Murger e poi musicati da Puccini, accomunati dal bisogno costante di superare la giornata affrontando freddo e fame con tutta la superficialità, la passione e anche la leggerezza propria dei giovani.
E questa ambientazione non fa cambiare la percezione dell’opera.
Almeno fino all’ingiustificabile e francamente, imperdonabile, finale.
L’appartamento dove vivono è palesemente povero, con pareti grigie, scrostate, con tracce di umidità. Dalle ampie finestre si intravede la neve e non è difficile capire che la differenza di temperatura tra dentro e fuori è pressoché inavvertibile.
Le scene di Christophe Ouvrard e i costumi di Tiziano Musetti (da un’idea di Edoardo Russo), sono coerenti con la scelta registica di ambientare la storia nella Francia del ‘68 e soddisfano quella determinata estetica.
Ci sono pochi simboli che richiamano quegli anni: degli stencil di pugni chiusi rossi su fondo bianco, la scritta sul muro, “La verité est revolutionaire” anch’essa vergata di rosso, e una bonaria presa in giro del Presidente Charles De Gaulle nella scena corale all’inizio del terzo atto.
Molto più disturbante la necessità che ha Mimì di spogliarsi in una soffitta insalubre dove fa talmente freddo che è facilmente ipotizzabile che persino a dormire ci si vada con il cappotto.
Per il resto al posto delle candele ci sono delle torce.
Al posto del camino una piccola stufa a gas.
Al posto della zimarra un Eskimo dettato forse più dalla povertà che non dal credo politico.
L’osteria è trasformata in una sorta di cabaret alla moda dove la “Diva” Musetta può esibirsi e scatenare le gelosie di Marcello.
I giocattoli di Parpignol, richiesti a gran voce dai bambini del Coro di voci bianche del Festiva Puccini, ottimamente diretto dal M° Viviana Apicella, sono dei semplici palloncini colorati.
Lo scollamento tra ciò che si vede e ciò che si sente richiede ovviamente che lo spettatore stia al gioco e sviluppi una certa complicità con ciò che accade sul palco. E a dir la verità per la maggior parte del tempo la regia scorre, l’ambientazione non disturba, e le invenzioni sceniche veramente disturbanti in realtà non sono tantissime.
Certo è che, se si fossero evitate, il risultato sarebbe stato uno spettacolo più gradevole e compatto soprattutto in considerazione dei pregi che lo rendono comunque interessante.
Merito di un cast giovane, molto promettente e affiatato che da vita a un gruppo di giovani sognatori, scanzonati e incapaci di prendersi sul serio, e di una direzione attenta alle dinamiche, quella del M° Manlio Benzi che ha offerto una prova Direttoriale precisa, in grado di sorreggere i cantanti nel loro ruolo, infondere loro sicurezza e guidare l’Orchestra del festival Puccini in un’esecuzione decorosa, trovare coesione con il coro, diretto dal M° Roberto Ardigò, e riuscire a sviluppare uno svolgimento teatrale fluido.
Il Rodolfo di Oreste Cosimo coniuga freschezza vocale, un timbro piacevole e una buona risoluzione degli acuti. Il legato ogni tanto si interrompe ma le intenzioni sono giuste.
Nell’aria del primo quadro descrive se stesso tra spavalderia e poesia, suscitando un’immediata simpatia. La salita al Do alla fine della frase alternativa “La dolce speranza…” (che una volta era di rara esecuzione ma che sta diventando ormai una consuetudine) è sicura e di grande effetto. Così come non manca di causare meraviglia la grande tenuta di fiato sul “Vi piaccia dir.”che conclude l’aria e scatena applausi entusiasti e meritati.
Mimì ha la voce chiara ed espressiva di Claudia Pavone. Se è vero che eccede nel vibrato è altresì vero che la sua aderenza alla parola e alla musica è totale e profondo in grado di commuovere ed arrivare al cuore. Ricca vocalmente in atto “Mi chiamano Mimì..” in cui si descrive come dolce e semplice ma anche incredibilmente appassionata nel crescendo di in “Quando vien lo sgelo, il primo sole è mio…” in perfetta connessione con la fossa orchestrale che innalza lo spirito all’amore. Quell’amore che nasce così spontaneo e puro che non crea scalpore l’invito di lui ad attardarsi a casa invece di uscire fuori al gelo. Invito che lei accetta.
Nel ’68 sarebbe successo. E probabilmente anche ai tempi di Puccini salvo non poterlo rappresentare a Teatro senza far storcere il naso ai benpensanti.
Il gruppo di amici si amalgama bene musicalmente e scenicamente. Dal Marcello stentoreo dotato di un bel registro grave del baritono Alessandro Luongo, allo Schaunard spassoso, a tratti buffo, di Sergio Bologna,Baritono dalla voce calda e brillante.
Il Colline interpretato da Antonio Di Matteo si mostra solido e ben caratterizzato con un’esecuzione precisa di“vecchia zimarra” anche se un po’ algida.
Ben caratterizzato il Benoit di Angelo Nardinocchi che arriva a chiedere l’affitto accompagnato da un gruppetto di bambini disposti in ordine crescente di altezza.
La trasformazione di Musetta, interpretata da una tanto scaltra quanto affascinante Federica Guida, in “Diva”,con tanto di pelliccia di volpe argentata e abito da sera fucsia, è risolta in modo elegante.
Le coreografie di Angelo Smimmo, che la circonda da camerieri compiacenti, sono piacevoli e riportano alla memoria il balletto di Marilyn Monroe “Diamonds are the best girl’s friend” nel film “Gli uomini preferiscono le bionde” di Howard Hawks.
Alessandro Ceccarini è un Alcindoro sonoro e di lusso capace di interpretare il ricco Consigliere di Stato recitando e cantando su una carrozzella. Nonostante le difficoltà domina la scena muovendosi freneticamente da una parte all’altra del palco cercando di restare al passo di una irrefrenabile Musetta.
Concludono degnamente il cast il Parpignol di Marco Montagna e il Sergente dei Doganieri di Francesco Auriemma.
Se mi sono soffermata abbondantemente sui punti di forza di questa produzione non posso però tacere l’errore più grande.
Puccini costruisce un finale che è un capolavoro di tensione drammatica crescente che si conclude con l’urlo straziante di Rodolfo quando la morte irrompe nella vita di questo gruppo di amici e cambia tutto. Nulla potrà mai più essere lo stesso.
E’ teatro al massimo livello.
Un crescendo emotivo che qui viene sistematicamente e scientemente vanificato dall’entrata in scena di un gruppo di attivisti contemporanei alla guida di una ragazza con treccine e impermeabile giallo che riporta a Greta e alle proteste sui cambi climatici.
Si perde l’unità di tempo e di spazio per appiccicare con forza un’etichetta di attualità che non ha alcun senso.
Una volta si metteva in guardia contro la necessità di “Non interrompere un’emozione.”
Forse quella lezione andrebbe ripetuta e imparata.
Loredana Atzei
La recensione si riferisce alla serata del 10 Agosto 2023