L’ultima recita di Turandot di G. Puccini al Teatro Bellini di Catania con il finale di L. Berio: una forzatura tutta novecentesca.
C’erano molte aspettative per questa messa in scena della Turandot al Teatro Bellini di Catania, ma che invece ci ha lasciato un po’ perplessi, sia per la scelta di eseguire il finale dell’opera di Luciano Berio che per alcuni aspetti vocali dei protagonisti.
Iniziamo col dire che il Coro, diretto dal maestro Luigi Petrozziello, e l’Orchestra del Teatro Bellini sono cresciuti parecchio in precisione rispetto ad anni fa. Nell’ultima serata delle sette recite in programma, dedicate a Puccini nel centenario della morte, ritroviamo all’ascolto il piacere di fare musica per la musica.
Risalta immediatamente alle orecchie la precisione degli attacchi orchestrali, la cura nei fraseggi, ma ancor di più l’insieme orchestrale. Un plauso ai maestri d’orchestra i quali, diretti dal maestro E. Stier, hanno dimostrato grande professionalità.
Del Maestro Stier rileviamo che, per essere alle prime esperienze come direttore d’opera, non possiamo dire che è andata male. Gesti chiari, buona intesa anche con il palcoscenico, lo vedono vincitore di questa sfida, ma va evidenziato che la sua forza è nel sinfonismo. Infatti, non sono pochi i momenti in cui affronta la buca come un’orchestra sinfonica, spingendosi arduamente in sonorità possenti che tuttavia non cozzano del tutto con la compagine orchestrale pucciniana, dove ottoni, fiati e strumenti a percussione sono presenti per l’intera opera. Certo è che la scelta di eseguire il finale d’opera scritto da Luciano Berio nel 2001, ha enfatizzato, proprio nel finale, un sinfonismo novecentesco, esasperando sonorità e arditezze armoniche che con la scrittura pucciniana risultano un po’ ardite. Infatti, in questo finale, che è stato eseguito per la prima volta a completamento dell’opera (era già stato eseguito anni fa in un recital sinfonico proprio al Bellini), Berio accentua nella sua partitura l’uso di percussioni, fiati, ritmi, non trascurando però incipit delle melodie pucciniane dell’opera. Ritroviamo quindi quell’eccesso sinfonico orchestrale, tipico della metà del ‘900, che a nostro parere con la sapiente scrittura pucciniana decisamente ha poco a che fare. Meglio sentire la versione originale di Puccini (l’opera si interrompe dopo la morte di Liu’).
La messa in scena è quella di Torre del Lago del 2017, con le scene di Carla Tolomeo, riprese da Leila Fteita, e con la regia di Alfonso Signorini.
Questa prima esperienza registica di Signorini è rispettosa, chiara e non fa voli pindarici con idee fuori luogo o cervellotiche, come molte regie del momento. La sua idea segue molto il libretto e mette in evidenza i caratteri dei personaggi a cominciare dalle due donne dell’opera: Turandot e Liu’. La prima algida e chiusa all’amore, l’altra sopraffatta dall’amore. Non passa inosservata la scelta del suggerimento da parte di Liu’ a Calaf al terzo enigma.
Il contrasto e le diversità caratteriali delle due donne sono messi ben in evidenza in questa regia che è stata risolta da Signorini nella maniera più immediata: la semplicità.
L’innovazione non passa necessariamente per vie impervie e impianti scenici e registici astrusi e incomprensibili; la magia dell’opera sta proprio nella semplicità e fedeltà dei libretti, in cui gli autori hanno già scritto tutti i dettagli che servono. Basta seguirli.
La scenografia di Carla Tolomeo rende bene l’idea delle mura cittadine rosse che separano il popolo di Pechino dal palazzo reale di Turandot, dorato ma non eccessivo, e la scalinata con in cima il trono di Altoum. Un po’ sacrificato il coro per gli spazi a disposizione, visto che la scenografia occupa molto spazio sul palcoscenico. Buone le luci affidate ad Antonio Alario.
Sul palcoscenico ritroviamo in questa ultima recita il soprano Daniela Schillaci nei panni della protagonista Turandot.
Migliorata vocalmente, rispetto a qualche anno fa, la voce è più omogenea e più matura, sfoggia acuti sicuri e un bel registro centrale, ma non ci ha convinto del tutto per questo ruolo. Ci è mancato un po’ di “corpo” nella voce per Turandot, tuttavia compensato dalla sua resa scenica ed interpretativa. È la sua Turandot.
Applausi per la Liù di Elisa Baldo. Voce brunita e rotonda ma con pregevoli filati, ha regalato intensità nella sua interpretazione della serva innamorata e pronta a morire per amore. Molto applaudita dal pubblico esce vittoriosa dalla sua performance.
Qualche problema per il Calaf di Angelo Villari, che in alcuni momenti ha mostrato qualche cedimento vocale, ma che non ha inficiato la sua performance, è migliorato moltissimo in questi ultimi anni, la voce è più omogenea nei registri e risolve bene il Nessun dorma mostrando sicurezza scenica.
Timur è George Andguladze: dalla voce calda e ben proiettata scandisce le sue parole con un bel legato di fiato e cura nei fraseggi. Ottimo il finale alla morte di Liu’.
Molto bene i tre ministri Ping, Pong e Pang, rispettivamente Vincenzo Taormina, Saverio Pugliese e Blagoj Nacoski. Un trio con un ottimo amalgama vocale ed intesa scenica, risolvono la complessa parte musicale con disinvoltura, soddisfacendo il pubblico in sala che li ha omaggiati con lunghi e sonori applausi.
Corretto il resto del cast: Un mandarino Tiziano Rosati e Altoum Mario Bolognesi.
Veramente apprezzabile il Coro di Voci Bianche interscolastico Vincenzo Bellini diretto da Daniela Giambra.
Bellissimi i costumi di Fausto Puglisi rivisti da L. Fteita, che hanno ben distinto tutti i personaggi.
Insomma, tirando le somme, diciamo che l’inizio della stagione 2024 del Teatro Bellini parte più in positivo, considerando anche i sold out di tutte le recite.
Applausi finali per tutti, non molto calorosi a dire il vero, ma pubblico soddisfatto anche in questa ultima recita.
Salvatore Margarone
La recensione si riferisce alla recita del 20 gennaio 2024
Photo©GiacomoOrlando