Verso la modernità italiana del 1900
Ildebrando Pizzetti, considerato il più importante compositore italiano del secondo dopoguerra, anche se ai nostri giorni è alquanto in ombra, ha composto la sua ultima opera, “Clitennestra”, a pochi mesi dalla morte, nel 1968. Il mondo dell’opera italiana è sicuramente quello più tradizionalista: già nel passato, i nuovi linguaggi venivano guardarti con grande sospetto, basti pensare alle reazioni negative che ebbero la riforma gluckiana o le prime esecuzioni delle opere di Wagner in Italia.
L’opera italiana e il pubblico che la segue sono legati al canto, alla voce che si libera nell’aria, che si impenna nell’acuto e così via. Nell’ambito di questa tradizione si colloca l’opera teatrale del compositore italo-americano Gian Carlo Menotti (1911 -2007). Dalla sua prima opera, “Amelia al ballo” (1937), che ne decretò il successo, fino al suo ultimo lavoro teatrale, “Goya” del 1986, revisionato nel 1991, Menotti non ha mai tradito il suo stile tradizionalmente legato ad una linea di canto di stampo pucciniano ed ad una teatralità di marca verista di sicuro effetto.
Dagli anni ’70 in poi è assai difficile analizzare lo sviluppo dell’opera, o, utilizzando un termine alternativo che designa i lavori di sperimentazione, dell’azione scenica. Ed è proprio la sperimentazione ad aver dominato il campo della musica moderna. I lavori di Luigi Nono (1924-1990), Luciano Berio (1925-2003) o di Silvano Bussotti (1931), tanto per citare alcuni dei nomi più noti, non sono certo “opere” nel senso canonico del termine. Il concetto teatrale e musicale applicato da questi ed altri musicisti delle cosiddette avanguardie storiche ha creato forme di spettacolo di non facile ascolto, specialmente per un pubblico, come quello italiano, che solo in questi ultimi anni ha incominciato a “digerire” certe opere di Richard Strauss o di Alban Berg. Sì è pertanto verificata una frattura tra musica moderna e pubblico che pone il musicista contemporaneo desideroso di scrivere per il teatro di fronte alla difficile scelta: tradizione o avanguardia.
La decisione è ardua. Questi ultimi anni hanno visto un certo ritorno ad un linguaggio più accessibile, ad un teatro meno concettuale. Questo tentativo di riconquistare il pubblico è testimoniato da certe creazioni di Marco Tutino (1954), Azio Corghi (1937) o dell’ultimo compositore in ascesa, Fabio Vacchi (1949).
Azio Corghi, dopo essersi avvicinato alla Nuova Musica negli anni ’60, sviluppa gradualmente la sua personalità poetica facendo rivivere il passato storico in forme espressive nuove, ponendo alla base dell’invenzione tecnico-formale la rappresentazione di un contenuto, di un conflitto morale. Infatti negli anni ’80, si accosta al teatro musicale con un marcato impianto corale, componendo Gargantua (1984), Blimunda (1990) e Divara (1993), le ultime due ispirate a testi di J. Saramago.